Sono una socialista, laica e libertaria da sempre.
Non ho mai amato i dogmi e le chiese, né quelle cattoliche, né quelle comuniste, ma non per questo non le ho rispettate.
Così come, pur non essendo mai stata idealmente craxiana, anzi
avendolo combattuto dall'interno per le corruttele che in quegli anni
dilagavano nel partito (ignara che la "questione morale" sarebbe stata
superata nell'entità, nella durata e nella sfacciataggine dalle
tangentopoli dei giorni nostri), ho sempre riconosciuto a Bettino Craxi
una capacità politica straordinaria, un fiuto da segugio nel prevedere e
governare gli eventi.
Quell'uomo antipatico a molti, a tratti
arrogante ed irritante, possedeva però un talento raro, una visione
globale della politica che lo ha reso un gigante nella gestione dei
conflitti internazionali del suo tempo, nella lettura della politica
italiana degli anni di piombo, nel ruolo dell'Italia in Europa e nel
Mondo. Un vero statista, forse l'unico degno di questo nome negli
ultimi venti anni.
Ho anche difeso l'uomo Craxi dal giustizialismo
forcaiolo di allora, cavalcato da coloro che ambivano più a prenderne
il posto nel panorama socialista europeo che a difendere e sostenere
veramente una "questione morale ed etica" nella politica.
Giustizialisti diventati garantisti per necessità, non appena loro
stessi destinatari di "avvisi di garanzia", di "atti dovuti", per
troppo tempo fatti passare dalla stampa e dagli avversari politici,
come sentenze di condanna definitive e non come iniziative a difesa
dell'indagato.
E ci riuscirono anche grazie al lavoro dei vari
Violante e dei vari D'Alema, che per lunghi anni fecero gli
antisocialisti nelle Procure e nel Parlamento nel nome della "questione
morale", per poi guardare al PSE come la loro casa e la destinazione
finale del PD, entratovi a farne parte solo da qualche giorno e non
certo per la lungimiranza di costoro, quanto piuttosto per la
risolutezza di un democristiano.
Ebbene oggi, dopo che abbiamo
ingoiato governi di larghe intese e fornito salvacondotti a
pregiudicati e condannati nel nome di un patto di austerità, consegnato
il Paese ad una Europa di Banchieri e non di Istituzioni Democratiche,
sottoposto imprese e cittadini alla sovranità monetaria della BCE e non
dell'Europa degli Stati, rinnegato (giustamente) la riforma del titolo V
e quella del mercato del lavoro (che hanno dato la stura, tra l'altro,
allo smantellamento dello Stato Unitario, attentato all'impianto
costituzionale e determinando la precarizzazione del lavoro), oggi
sosteniamo che occorre rivedere gli accordi di Maastricht come se fosse
una esigenza sopraggiunta, imprevista ed imprevedibile. E invece era già
tutto previsto, prevedibile ed evitabile.
Oggi è tardi e prima di
imbarcarci in una demagogica e tardiva battaglia nazionalista,
correttiva di numeri e di accordi che ci vedono in minoranza, forse
dovremmo sforzarci di adeguare il nostro senso di appartenenza e del
dovere, il nostro senso dell'etica nella politica e nell'economia agli
standard europei. Quelli, per intenderci, che hanno indotto il
presidente della Bayrn Monaco, Hoeness, a rinunciare al ricorso in
appello, a riconoscere il suo errore e ad andare in galera.
Oggi è
urgente ripensare alla nostra spesa pubblica e alla sua necessaria
finalizzazione alla prestazione dei servizi essenziali ai cittadini e
non a garantire posti di lavoro politici e clientelari, incarichi e
consulenze, consigli di amministrazione e società partecipate.
Ridurre soltanto il costo della democrazia attraverso il taglio al
finanziamento ai partiti e ai rimborsi elettorali, non basta più e non
sarebbe mai bastato. Occorre andare oltre e tagliare tutti i costi
indiretti della politica, quelli necessari per acquisire e mantenere il
consenso elettorale, i privilegi del potere, l'uso privatistico della
cosa pubblica.
In una parola gli sprechi: dobbiamo eliminare
tutto ciò che non produce ricchezza, né bellezza, che non offre servizi
essenziali ai cittadini, né benessere.
La priorità di oggi non è
quella di ridurre la spesa pubblica con i tagli lineari, o altrimenti
detti "
'ndo coglio coglio", ma di mandare a casa tutti coloro che da
troppi anni portano a casa uno "stipendio pubblico" per rendere un
"servizio privato" ad un singolo politico, ad un partito, ad un comitato
d'affari, ad una loggia, ad clan, dal bidello al professore
universitario, dall'impiegato di concetto al manager, dal portantino al
grande chirurgo, dall'autista al magistrato.
L'Europa politica,
invece, dobbiamo ancora costruirla cercando di evitare gli errori
commessi nel recedente passato dai boiardi di Stato e dai burocrati di
partito cui abbiamo affidato il compito di rappresentarci ma che si sono
limitati ad essere "presenti", a timbrare il cartellino, a strisciare
il badge e passare, per ciò solo, alla Storia come i Padri
dell'Europa.
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